Beja: gli allevatori di dromedari

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Le foto e gli appunti sui pastori Beja sono stati realizzati durante le missioni archeologiche nel deserto nubiano sudanese svolte dai fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni dal 1989 per oltre dieci anni.

Un popolo antico
La storia dei Beja è antichissima. Erano già conosciuti nel III millennio dai Faraoni egizi che li indicavano con il nome “Megiay” e successivamente dai Tolomei con il termine “Cadoi ophiophagi” (mangiatori di serpenti). I Romani li chiamavano “Blemmi” e Plinio il Vecchio li descriveva come uomini senza testa con gli occhi e la bocca in mezzo al petto. Gli scrittori arabi del medioevo li designarono con il nome di “Buja” che ha originato l’attuale termine Beja.

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Temuti razziatori
Gli antenati degli odierni Beja, effettuarono per secoli incursioni sulla valle del Nilo saccheggiando le città e gli opulenti territori bagnati dal fiume. Poi, rapidamente, tornavano nel deserto del quale si ritenevano gli incontrastati padroni. Adattati a un clima difficile, conoscevano l’ubicazione dei pozzi aperti a filo terra, difficilmente individuabili dalle spedizioni punitive organizzate dopo le loro razzie.

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I Beja oggi
Attualmente i Beja ammonterebbero, secondo una stima del tutto approssimativa, a circa 300.000-350.000 individui, divisi in gruppi simili culturalmente, ma presso i quali è presente un diverso grado di islamizzazione: gli Ababdeh, gli Adendoa, gli Amarar, i Bisharin e i Beni Hamer. Sparsi su una zona semi desertica situata nell’Egitto meridionale, in Eritrea, in Sudan e nell’ Etiopia settentrionale, occupano in parte il territorio delimitato ad occidente dal Nilo e ad oriente dal Mar Rosso.

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Amuleti
Non si separano mai dai loro amuleti che tengono appesi al collo o legati intorno alle braccia. Non intraprenderebbero mai un lungo viaggio senza la loro protezione di cui sono certi.

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L’allevamento dei dromedari
I Beja allevano i dromedari che accudiscono con cura: sono una ricchezza che permette loro di spostarsi nelle zone desertiche e commerciare con le popolazioni limitrofe.

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L’abbeverata.
Dal diario della spedizione: “Siamo transitati presso un pozzo Bisharin. Gli uomini erano intenti ad attingere acqua con le ghirbe e a versarla in un truogolo per abbeverare i dromedari, un’attività protrattasi per ore. I dromedari erano numerosi e ognuno beveva molta acqua, fino a 100 litri in poco tempo”.

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La raccolta del legname
I Beja raccolgono i rami secchi ma, sovente, tagliano anche gli alberi, causando una progressiva e rapida desertificazione. Tuttavia è solo la legna che permette loro di cuocere il cibo e avere combustibile per il fuoco che mitiga, in alcune stagioni dell’anno, il freddo notturno.

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L’allevamento delle capre
Altri animali allevati dai Beja sono le capre, normalmente accudite dalle donne che portano sempre con loro una lunga pertica dotata di un rampino: serve a piegare i rami delle acacie e abbassarle alla portata degli animali.

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Il cibo
La dieta Beja consiste in latte e cereali. Dalla farina, ottenuta con macine litiche simili a quelle neolitiche, le donne preparano sfoglie sottili che fanno cuocere su piastre roventi.

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Gioielli antichi
Le donne hanno il volto scoperto e ornano la pinna nasale con lamine incise d’oro che, sovente, i Beja ottengono laminando le duttili pepite che trovano nella sabbia degli “uadi”. Un gioiello prezioso trasmesso da madre in figlia.

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Le acconciature delle donne
La pettinatura femminile è costituita da numerose treccine lasciate cadere sulle spalle. E’ il risultato di un lavoro effettuato tra donne, dimostrazione di affetto reciproco. Acconciature che, talvolta, sono rifatte solo dopo molto tempo.

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Il matriarcato di un tempo
La notevole libertà di cui godono le donne Beja (ad eccezione delle Ambadah), è interpretato come una testimonianza di un’antica supremazia femminile, confermata anche dallo storico egiziano al Maqrizi che, nel 1400, menzionò la discendenza matrilineare e le regole riguardanti l’eredità, riservata ai figli della sorella della donna o ai figli della figlia. Oggi il patriarcato ha avuto il sopravvento, probabilmente sotto l’influsso islamico.

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Capelli crespi
Gli uomini hanno una folta capigliatura scura, lucida di grasso e palline dello stesso materiale vengono usate per fissare le ciocche dei capelli crespi nei quali tengono grandi pettini di legno, talvolta decorati, per districarli e liberarli dalla sabbia.

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Le armi
Durante i frequenti spostamenti i Beja non si separano mai dalle armi: la lunga spada custodita in una guaina di cuoio ornata con fili d’argento, il pugnale dalla lama ricurva, lo scudo rotondo talvolta costruito con pelle di elefante e il “trombash”, il bastone da lancio curvo che i Beja fanno ruotare a poca distanza dal suolo per cacciare le piccole gazzelle Dorca: un arma antica usata anche nell’Egitto faraonico.

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I villaggi
Di carattere chiuso e solitario i Beja non amano i grandi raggruppamenti. Normalmente i loro villaggi si compongono di un limitato numero di abitazioni: intelaiature di rami piegati ad arco sulle quali sono stese stuoie di paglia. Ripari facili da trasportare in occasione degli spostamenti resi necessari da una pastorizia nomade o semi nomade.

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Le abitazioni di montagna
Nelle zone montuose, i Beja utilizzano i tronchi delle acacie sradicati dalla violenza delle fiumane che nascono da rare piogge, per costruire le pareti e il tetto di capanne circolari. Nell’interno, appesi al soffitto, vengono custoditi gli oggetti della loro vita quotidiana. Stuoie e ceste di paglia, ghirbe di cuoio per attingere l’acqua, scorte alimentari, soprattutto la “durra” al sicuro dall’insaziabile fame delle capre.

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Incontro con un giovane pastore
Dal diario della spedizione: “Oggi abbiamo incontrato, lontano dal suo accampamento, un pastorello, piccolo di statura, magro ma robusto che si prendeva cura di una decina di capre. Dopo l’iniziale sorpresa, ci sorride, mostrando denti forti e bianchi che un velo di saliva rende luminosi, facendoli spiccare sulla pelle scura del volto, incorniciato da lunghi e ricciuti capelli neri

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Testimonianze degli storici e viaggiatori arabi medievali sui Beja (da loro chiamati Buja)
Ci informa lo storico egiziano al Maqrizi (1364-1442), che tutto il paese dei Buja è pieno di miniere d’oro contenuto nel quarzo aurifero. Una grande quantità di metallo prezioso è sottolineata anche dal geografo arabo-ispano Ibn Sa’id al-Andalusi (1206-1286).

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La corsa all’oro
I Buja si ritenevano gli unici proprietari delle miniere. Fu negli anni tra l’820 e l’830 della nostra era che gli arabi della valle Nilo scoprirono le miniere dando origine alla prima “corsa all’oro” della storia. I Buja nell’844-845 attaccarono le miniere massacrando i minatori arabi. Alcuni graffiti scoperti dalla spedizione potrebbero risalire a quel periodo.

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La “battaglia dei campanelli”
Nell’855 il generale arabo al-Qummi penetrò nel deserto con un numeroso contingente di cavalieri per combattere i Buja. Si trovò di fronte numerosi uomini armati di scudi rotondi che montavano dromedari focosi. Il citato al Maqrizi ci descrive così la battaglia: “al- Qummi ebbe la meglio usando lo stratagemma di legare al collo dei cavalli delle campanelle che spaventarono i dromedari e disarcionarono i Buja”. Uno scontro che gli storici arabi chiamarono “la battaglia dei campanelli”. Alcuni graffiti scoperti dai fratelli Castiglioni, dove si notano cavalieri fronteggiare uomini appiedati armati di scudi rotondi, potrebbero ricordare questo lontano evento.

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Presso il Museo Castiglioni è possibile scoprire straordinari reperti etnologici ed archeologici.

Tutte le immagini fotografiche, i disegni e i testi di questo articolo sono di proprietà esclusiva dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni. Qualsiasi riproduzione, anche se parziale, è vietata. Per ricevere autorizzazione all’utilizzo si prega di contattare il Museo Castiglioni.

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